Un coro di voci armoniche, eteree e oscure aprono l’intro di From Zero per poi con un brusco cambio di scenario, in presa diretta dallo studio di registrazione, fa capolino la voce di una ragazzina — probabilmente la figlia di Mike — che domanda “From zero? Like… From nothing?” a cui Mike Shinoda risponde con un secco “Yes!“. Questi ventidue secondi segnano il ritorno dei Linkin Park dopo oltre sette anni dall’ultimo disco One More Light. From Zero sembra quasi giocare anche con Xero, il nome originario della band fondata da Shinoda, come a dichiararne la rinascita dopo la tragica scomparsa di Chester Bennington, questa volta con una formazione leggermente diversa da quella che conosciamo.
Ma d’altronde — permettetemi il parallelismo da fan nostalgica — è concesso al genitore 1 (Shinoda) di rifarsi una vita dopo sette anni e mezzo senza il genitore 2 (Bennington). E infatti il tanto atteso ritorno della band è arrivato: con la pubblicazione del singolo The Emptiness Machine il 5 settembre e la nuova formazione della band che vede, accanto a Mike Shinoda, Phoenix, Joe Hahn, l’ingresso di Emily Armstrong come co-vocalist e, al posto di Rob Bourdon, alla batteria c’è Colin Brittain. Il giorno seguente il chitarrista Brad Delson ha annunciato che non avrebbe fatto parte del gruppo durante i tour, privilegiando la fase di lavoro in studio; è stato quindi scelto Alex Feder come suo sostituto. Un ritorno che ha spaccato la fanbase a metà: tra chi grida all’oltraggio perché «I Linkin Park sono quelli con Chester!» e chi che non solo si è abituato al nuovo genitore 2 (Armstrong) ma, anzi, sta imparando ad apprezzare questo nuovo capitolo del gruppo californiano. Tanto lo sappiamo che vi vedremo tutti agli iDays, eh, vecchie volpi.
Il nucleo compositivo è rimasto quello dei vecchi tempi, lo stesso che ha partorito album iconici come Hybrid Theory o Meteora. Il trio Shinoda/Brad Delson/Joe Hahn rimane infatti il nucleo portante di questa band a livello di songwriting, band che dopo sette anni e mezzo dal loro ultimo album, il controverso One More Light, torna senza stravolgere più di tanto l’idea sonora che il fan o il conoscitore “medio” dei Linkin Park ha sulla band statunitense; ed è così che abbiamo un disco che è un mix di quanto fatto in Hybrid Theory e Meteora, con influenze forti di un altro disco iconico come Minutes To Midnight, pescando anche qualcosina da quello che è venuto dopo, ma a piccole dosi. Niente grandi stravolgimenti, niente brani particolarmente elaborati, complessi e audaci come quelli di A Thousand Suns e nemmeno troppe incursioni verso i lidi pop del già citato One More Light. Anche le parti di scratch, sampling ed elettronica, rispetto ad altri dischi della band come Living Things per esempio, vedono un Joe Hahn forse un pelo sacrificato, ma che sa mettere sempre lo zampino vincente quando serve. Di base, considerato il cambiamento di formazione, è comprensibile che abbiano voluto giocare sul sicuro.
Tornando all’album From Zero, compare The Emptiness Machine che conosciamo tutti ormai; nulla di nuovo, nulla di trascendentale ma un pezzo molto ben scritto e d’impatto che mostra il lato più commerciale dei Linkin Park e le doti canore della Armstrong. Il testo, intenzionalmente vago come la stragrande maggioranza dei brani scritti da Shinoda, sembrerebbe avere come significato il senso di vulnerabilità e di perdita di identità all’interno di una relazione tossica o manipolativa.
Già dalla successiva Cut The Bridge tornano prepotenti gli echi dal passato; impossibile infatti non pensare alla celebre Bleed It Out quando si ascolta la parte batteristica del pezzo soprattutto nel suo incipit, o lo stile rappato di Shinoda nelle strofe. E parlando proprio dello stesso Mike Shinoda, rapper, polistrumentista, paroliere e leader della band, non possiamo non notare come lui stesso sia molto presente in quest’ultima fatica della sua band, sia nelle parti cantate che in quelle rappate e anche in quella “via di mezzo”, che è solito adottare nei suoi progetti. Sicuramente dona un senso di familiarità ai fan, ma in From Zero manca l’efficacia delle sue rime e del suo “flow”. Ovviamente il buon Mike non è mai stato un rapper tecnicamente dotato come Eminem, ma il suo stile è sempre stato pungente e diretto, oltre che ad essere assolutamente distintivo ed iconico per la band. Nei minuti finali del disco — diamo a Cesare quel che è di Cesare — con il brano Good Things Go, il buon Mike offre un flow dinamico e che sfocia in un crescendo veramente coinvolgente che esplode poi nel ritornello del pezzo cantato da Emily.
Appena nominata, ed è proprio la rivelazione di questo disco — Emily Armstrong — una vocalist che stupisce non solo live ma anche con la sua performance in questo platter offrendo degli scream brutali — proprio come ha fatto anche Chester in Given Up nel 2007 (di 17 secondi) —, talvolta riuscendoli a sostenere per tantissimi secondi (vedi Heavy Is The Crown), ma offrendo tanta emotività anche nelle parti in clean.
Un brano come il terzo singolo Over Each Other ne è un classico esempio. Un brano in cui l’argomento centrale è quella mancanza di comprensione in un rapporto tra due persone. Molto interessante il gioco di parole e il doppio significato associato con le parole del titolo — “All we are is talking over each other” — rappresenta proprio quella dinamica di due persona che si parlano una sopra l’altra senza ascoltarsi a vicenda, causando una delle due nel chiedersi se il suddetto rapporto sia finito — “Are we over each other?”. Molto emozionale anche l’impatto di Emily sulla frase “Skyscrapers we created on shaky grounds”, a rimarcare come forse quella stessa relazione fosse nata su basi poco solide in principio, come un grattacielo costruito su delle fondamenta traballanti.
Casualty è uno dei brani più heavy della tracklist, con quei richiami post-hardcore che ci riportano ai fasti di The Hunting Party e che tra l’altro ci introduce ad un piccolo “gioco vocale” che Emily adotta spesso in questo platter; uno stile molto caratteristico di un vocalist come Jonathan Davis dei Korn dove una frase viene sussurrata in maniera ossessiva, più e più volte, prima che la stessa frase (ma talvolta anche un’altra), venga ripresa e fatta esplodere con uno scream forsennato. Certamente un qualcosa di nuovo che nell’ambito della musica dei Linkin Park non abbiamo mai sentito, probabilmente un’arma dell’arsenale della Armstrong che ha voluto portare in seno alla sua nuova band.
Two Faced è uno dei momenti più classicamente Hybrid Theory (molto simile a One Step Closer) che la band porta su questo disco. I riff dal sapore Nu-Metal di Brad Delson sono abrasivi e lo scratching di Joe Hahn ci riporta indietro di quasi venicinque anni per la gioia dei tanti che sono cresciuti con la musica di questa leggendaria band.
Ad ammorbidire il tutto ci pensano brani come Overflow e Stained. Il primo è forse il pezzo più atipico del disco, con quelle sue vibes un pochino esotiche e quel suo retrogusto RnB, che ci riporta in parte ad un brano come Nobody’s Listening da Meteora, ancora una volta con Emily Armstrong che disegna con la sua voce degli scenari enigmatici ed affascinanti (“turning from a white sky, to a black hole”).
Ma è Stained che colpisce soprattutto per le parti vocali della Armstrong; davvero una delle sue migliori performance vocali nel suddetto album, ed interessante la dinamica vocale con le parti rappate di Shinoda, per un pezzo pop moderno di grande qualità, con qualche chitarra dal sapore più rock usata in maniera occasionale e vibes che ricordano le sonorità di Living Things.
IGYEIH (acronimo per “I gave you everything I had”), è un altro pezzo pesante con delle parti di sampling minimali ma efficaci da parte di Joe Hahn che esplode nel ritornello. Anche qui c’è la solita frase ripetuta in maniera compulsiva da Emily, “from now on I don’t need you”, prima in maniera più calma, poi urlata in maniera brutale ed esplosiva. Certamente questa traccia insieme al trio Casualty — Two Faced — Heavy Is The Crown (a proposito, ma vogliamo parlare degli inserti orchestrali minimali utilizzati all’inizio di quest’ultimo, che richiamano molto Faint?) rappresentano il lato più heavy di questo disco, che purtroppo si chiude troppo, troppo presto, con i suoi trentadue minuti scarsi di durata. Forse, a conti fatti, il difetto più grande di questo lavoro.
Tirando le somme, sicuramente non direi che questo album sia un capolavoro, ma tutto sommato ha ampiamente soddisfatto le aspettative e, considerate le sue quasi prime 24 ore di vita, ha decisamente lasciato il segno. Speriamo che questo sia soltanto l’inizio e che From Zero faccia da apripista affinché i Linkin Park osino di più in futuro. Possibilmente senza farci aspettare ere geologiche tra un disco e l’altro.