Foto: Stefania Zanetti
Report: Giulia Bencini
About waterfalls and sparkling fishes – Outernational Days 2
A volte è come essere sott’acqua, trascinati dalla corrente. Vista annebbiata, colori confusi, brillanti. Udito ovattato, suoni lontani come provenienti da un altro mondo. E poi quell’energia disumana della corrente che ti trascina via con violenza, conducendoti verso terre lontane e inaspettate.
Finché, ad un certo punto, non riprendi possesso del tuo corpo e ti accorgi di essere ad un festival. E non uno qualunque, ma Outernational Days, la festa delle culture per eccellenza, il palcoscenico dell’uguaglianza, la voce delle periferie.
Bucarest è un po’ come una giungla post contemporanea. Attraversi larghe strade e improvvisamente ti ritrovi dentro ad un video di Korakrit Arunanondchai, inseguito dalla presenza vigile di un drone e dal suono costante delle sue eliche di plastica nera, gli angeli custodi in un Terzo Paradiso mancato.
Relitti architettonici che celano segreti famigliari, sussurrati tra le mura di cortili più o meno privati. Palazzi imponenti dove le arcate non si affacciano sulla strada, ma piuttosto sul cielo blu elettrico, quasi a voler sfidare un Sole arrogante dall’alto dei loro ultimi piani. E poi gli occhi si soffermano su quella consistenza soffice e allo stesso tempo scultorea, l’acquolina alla bocca, quella M rossa che tutti conosciamo bene se non per il fatto che, questa volta, i Big Mac sono appesi su intere facciate di edifici trasformati in enormi pannelli pubblicitari.
Guardo Bucarest e penso a Rousseau. Il pittore che ha preso ispirazione dai suoi quadri per dipingere la città, ha però deciso di aggiungere alla tavolozza, composta da variazioni di verdi, rossi, blu e gialli, colori come il grigio e il nero. Quello dei profondi buchi neri in cui è facile perdersi indagando con lo sguardo la ricca flora urbana, quello che ha sostituito il vetro delle finestre degli edifici abbandonati e, conseguentemente, il colore della vita al di là di esse.
2017, seconda edizione dell’evento musicale e culturale che riunisce artisti da ogni parte del mondo: Svizzera, Libano, Niger, Senegal, Germania, USA, Turchia, Kenya, Austria, Italia, Romania, Serbia, Inghilterra. Tre giorni, a partire da venerdì 7 luglio.
Un giardino, una torre in mattoni rossi, scheletri di magazzini, arte a cielo aperto, video proiettati in 4:3, odore di hummus, e poi di carne, e poi di Zacuscă, bambini che giocano con la sabbia, spazi delimitati da cuscini adagiati per terra, viavai di magliette con stampe grafiche, capelli fluo e rollerblades: è Uranus Garden.
Sono le 19, cominciano le Massicot. La luce del Sole trapassa il tessuto a maglie larghe del fondo del palcoscenico e colpisce i piatti della batteria, trasformando i suoni ritmati e cadenzati in un enorme meccanismo industriale che, in quell’esatto momento, si risveglia dopo anni di inattività dovuta alla scomparsa del genere umano. Gli ingranaggi cigolano, le ruote si muovono, rallentano, la macchina osserva cauta, prende confidenza, poi velocità, corre al ritmo delle istruzioni di produzione dettate da Mara, la voce del gruppo.
E poi è di nuovo acqua, un perdersi tra le persone, nei loro sguardi liquidi, con i loro corpi oscillanti sulle note del gruppo rumeno Shamanelism.
Subito dopo, il vuoto che tenta disperatamente, ma invano, di occupare lo spazio lasciato libero dal cessare della musica crea un’atmosfera surreale che accompagna la folla verso The Ark, il locale adiacente.
Nonostante sia notte inoltrata, i Babau sono come una cascata di acqua cristallina in una foresta vergine delle Isole del Pacifico. Sembra piova, le gocce d’acqua che rimbalzano sulle foglie verde acceso danno vita ad una melodia ancestrale. Mi immergo sott’acqua, ascolto la voce delle rocce accarezzate da pesci rossi affusolati, fulminei, così veloci da non sembrare reali. Riemergo con una nuova pelle, scivolo tra le liane, cammino dove luci ed ombre si confondono. Rinasco, mi guardo attorno ed è come se gli sciamani personali dei presenti al concerto ci avessero condotto verso vie inesplorate delle nostre menti, facendoci vivere sensazioni che credevamo non sarebbero mai state nostre.
Ed è un continuo fluire di parole, sonorità, trasporto, espressione. Cammino nell’alba fino al tramonto, finché non vengo fermata dai Toresch. Viktoria, ammantata da una veste con cappuccio nero, sacerdotessa di una religione dimenticata nella cappella di una chiesa frutto della loro immaginazione. Mi siedo a terra, gambe incrociate, chiudo gli occhi. Fantasmi del passato sussurrano alle mie orecchie, gentili, seducenti. Mi chiedo se siano demoni infernali o angeli caduti dal cielo.
L’ultimo tramonto si apre ai miei occhi e alle mie orecchie con Mark Ernestus’ Ndagga Rhythm Force.
È terra rossa, calore del Sole che tramonta sulla pelle, vestiti gialli, voce d’oltremare, tamburi.
Un ibrido tra suoni ancestrali e richiami moderni, tra tradizione e innovazione.
Ma è stata energia allo stato puro solamente quando Florin Salam è salito sul palco dell’Uranus Garden assieme al numeroso seguito di musicisti e social reporter dell’evento. Impossibile per la folla stipata dietro le transenne contenere quell’impulso generatosi dalla musica stessa e dai veri e propri personaggi che hanno preso possesso
del palcoscenico. Un formicolio nello stomaco che è andato velocemente a diffondersi al petto, alla testa,
le braccia e le gambe, rendendo inevitabile lo scatenarsi di qualsiasi cosa o persona in ascolto.
La folla era un tutt’uno di cuori, menti, lacrime e sorrisi. La quantità inimmaginabile di flash e luci provenienti dagli schermi dei cellulari avrebbe potuto provvedere tranquillamente all’illuminazione del luogo. Una vibrazione pari alla scossa di un terremoto, capace di raccogliere tutta l’energia di ogni singolo individuo, sommarla a quella degli altri facendone un’enorme sfera luminosa piena di gioia, di aspettativa, di malinconia,
di dedizione, d’impegno, di condivisione che, a fine concerto, è stata rilasciata con violenza sul pubblico, frastornato, emozionato, confuso.
Allontanandoci per tornare a casa, salutando quella meravigliosa esperienza che è stato Outernational Days, camminavamo con la strana sensazione in corpo di esserci appropriati delle emozioni di qualcun altro e di aver abbandonato un po’ delle nostre in cambio.