Varcare la soglia dell’imponente tempio che è il MART è un’esperienza che intimorisce e allo stesso tempo affascina, incuriosisce.
Soprattutto la sera, quando le pareti bianche della struttura risplendono solamente della luce artificiale del sistema di illuminazione e l’edificio, più che un monumento greco, sembra una navicella spaziale appena atterrata sul pianeta Terra.
Dopo aver superato l’ingresso, un fascio di luce al neon violetta ci guida lungo due rampe di scale verso uno spazio accogliente, ampio, offuscato dalla leggera nebbiolina prodotta da un paio di macchine del fumo da 1500W. Bagliori di luce rossa che sembrano scaturire direttamente dai synth, dalle groovebox e dai sampler alla nostra sinistra affettano la foschia arrivando dritti ai nostri occhi. L’area dell’Auditorium Fausto Melotti dedicata a Distretto 38 è decisamente ben organizzata. Decidiamo di farci assorbire dall’atmosfera affondando nei morbidi pouf disposti alla destra del palcoscenico tutto luci, casse e cavi.
Dopo non troppo tempo le vibrazioni dei bassi non possono che attirarci verso la fonte del richiamo musicale. Ad aprire il concerto è Mulai, che ci presenta alcuni brani del suo nuovo EP “Glue”. Le esperienze vissute dal giovane producer bresciano, concentrate sotto forma di sonorità elettroniche in dialogo con voci e campioni processati, diretti e orecchiabili, si appoggiano con decisione sulla nostra pelle. I nostri corpi e le nostre menti vengono riportati a momenti e sensazioni già vissute o tanto desiderate da sembrare reali, palpabili. Solamente nel momento in cui Mulai smette di suonare ci rendiamo conto che quel malinconico cielo invernale sul lungomare di Gallipoli su cui stiamo camminando, assorti nei nostri pensieri, è un sogno ad occhi aperti.
Abbiamo a malapena il tempo di rendercene conto, che veniamo subito racchiusi nella bolla di energia che si viene a creare quando Clap! Clap! prende possesso delle manopole. La forza sprigionata è tale da creare un coinvolgimento totale del pubblico che, anche se non numeroso quanto un evento del genere si sarebbe meritato, si riunisce attorno alle casse. Ritmi tribali e canti provenienti da altre terre risvegliano i nostri corpi e ci ritroviamo, inevitabilmente, a ballare come attorno ad un grande fuoco. La base elettronica nettamente scandita e vigorosamente cadenzata su cui si plasmano le vocalità più disparate genera movimenti che non credevamo nostri.
La sensazione è quella di essere percorsi da un flusso non visibile agli occhi, ma perfettamente percepibile a livello fisico, che unisce tutti gli spettatori. Perdiamo la percezione del tempo e, dopo quella che ci sembra un’infinità, il livello di saturazione nei nostri corpi comincia ad appesantirci. Clap! Clap! conclude la sua performance e, quasi immediatamente, il mondo meccanico e accuratamente costruito di Powell si fa largo nella nostra mente. La sonorità è indubbiamente più complessa e distaccata, tanto da non essere compresa da gran parte del pubblico. L’artista londinese sembra suonare macchine arrivate direttamente da un’altra galassia, parlando con loro una lingua sconosciuta che, con colpi di scena e scarti di ritmo, si rivela particolarmente interessante. L’attenzione dei più curiosi è vigile e pronta a cogliere tutti i dettagli di quella che sembra una vera e propria operazione chirurgica, in cui Powell stesso, autoproclamandosi medico, calibra con risolutezza e concentrazione ogni singolo movimento. L’intervento musicale, purtroppo, sembra essere fin troppo veloce e in men che non si dica il dottore esce dalla sala operatoria.
La serata si conclude con un’ultima, appassionata, sferzata di energia. Le luci della ribalta si accendono nuovamente su Clap! Clap! che decide di far scatenare i pochi rimasti per un’altra mezz’ora, riempiendo il buco lasciato dal dj che avrebbe dovuto occuparsi della chiusura dell’evento.
Poi, con calma, torniamo sul pianeta Terra, due volte più sordi, dieci volte più felici.
Qui la nostra gallery a cura di Stefania Zanetti