Chiunque sia dentro al mondo della ricerca, vuoi per meriti accademici, puro interesse scientifico o per semplice predisposizione al sadomasochismo, sa benissimo in che tipo di situazione è andato a ficcare il naso: quotidianamente ci si trova sballottati in un ottovolante emozionale simile a quello di “Piccola peste torna a far danni (uno dei tre film che maggiormente hanno influenzato la mia infanzia insieme a “IT” e “Alla ricerca della Valle Incantata”).
Nel film datato 1991 e diretto da Brian Levant, il protagonista nonché piccola peste Junior, metteva fuori uso l’ottovolante di un luna park aumentando a dismisura la sua velocità e rendendolo impossibile da controllare, con effetti abbastanza prevedibili per i malcapitati passeggeri.
Il parallelismo con la ricerca potrebbe sembrare leggermente esagerato o fuori luogo. Tuttavia, chi sguazza in questo mondo da un po’, è consapevole che nella stessa giornata può capitare di immaginarsi già con un Nobel nel taschino della giacca (rigorosamente provvista di toppe sui gomiti) ed esattamente un’ora dopo essere il paria del laboratorio e ritrovarsi ad affondare in una spirale di tristezza e autocommiserazione.
Il bipolarismo emotivo di questo lavoro trova la sua ragione d’esistere in uno dei pregi dello stesso, cioè l’autonomia parziale o totale del lavoratore.
Questo implica che qualsiasi risultato si ottenga, sia esso positivo o negativo, è dovuto alla famosa “farina del tuo sacco” che che più spesso di quanto vorrei, in caso di risultato negativo, si associa al classico “non piangere sul latte versato”.
Certo, parlare per modi di dire è sempre riduttivo e fortunatamente, non si può e non ci si deve concentrare solo sugli aspetti negativi del mondo della ricerca. Dopo tutto è un lavoro che dà la possibilità di confrontarsi per lo più con gente interessante, che spesso ha veramente a cuore quello che fa e ci si dedica con anima e corpo nonostante la carenza di sonno, l’isolamento dal mondo civilizzato e le interminabili conferenze che più che promulgare un tipo di ricerca specifico sembrano porre le basi per un nuovo paradigma per lo studio della lingua inglese (spesso più che ricercatori ci sentiamo un po’ studiosi di linguistica diacronica o glottologica).
Inoltre la possibilità di essere il “produttore” del tuo stesso lavoro è particolarmente stimolante perché permette di scegliere quasi del tutto autonomamente la direzione specifica che seguirà la tua linea di ricerca, con la consapevolezza che quello che stai producendo è un granello di sabbia nell’immensità della produzione scientifica. Il sogno di produrre un dato totalmente innovativo e che sia completamente slegato dai risultati prodotti da altri gruppi di ricerca è non solo fuorviante, megalomane e un po’ arrogante, ma soprattutto lontano anni luce della realtà delle cose. Sin dalla sua nascita, il metodo scientifico galileiano ha posto le sue fondamenta nel confronto tra pareri ed idee differenti.
E se nei secoli precedenti questo era appannaggio di una piccola minoranza colta e privilegiata, adesso la produzione scientifica si è trasformata in un concetto sempre più collettivo e organico (partendo sempre dal presupposto “no money no party”). La produzione scientifica ha come risultato finale la stesura di un articolo scientifico. Chi ha dimestichezza con questo mondo, ha sicuramente già letto o ascoltato termini come abstract, review, article, journal, academic paper.
Senza entrare troppo nel dettaglio, i primi tre termini si riferiscono al formato di pubblicazione di determinati dati scientifici o accademici prodotti da un gruppo di ricerca, mentre gli ultimi due alla rivista scientifica sulla quale saranno pubblicati. I dati relativi alle pubblicazioni scientifiche e il numero di riviste specializzate sono in continua crescita e offrono uno spaccato abbastanza impressionante dell’influenza che ha il mondo scientifico sul nostro quotidiano. Basti pensare che solo nel 2006 sono stati pubblicati 1,316 milioni di articoli scientifici in ben 23.750 riviste (fonte: B.-C. Björk, R. Annikki, and M. Lauri. Global annual volume of peer reviewed scholarly articles). E i numeri crescono esponezialmente di anno in anno.
Questa enorme produzione scientifica ha però un prezzo: il fulcro di un PhD o un post-doc non è tanto la ricerca in sé quanto la capacità di produrre articoli. Se da un lato possano sembrare due cose intimamente interconnesse per mezzo di una relazione biunivoca, tuttavia l’assunto comporta un cambio sostanziale nel modo di intendere la scienza, trasformata in una merce che ha una determinata valuta che a sua volta può essere soggetta a variazioni di mercato (e qui mi fermo con le similitudini economiche anche perché sto finendo gli argomenti). Sono consapevole che l’idea incantata della scienza libera da qualsiasi vincolo morale o materiale sia una mera utopia. Dopo tutto sono gli uomini a fare scienza e a fornire gli strumenti materiali per portarla avanti e perciò non si può pretendere che qualcosa nato per “servire” l’uomo abbia una connotazione morale superiore allo stesso o quasi metafisica.
Quello su cui riflettevo è il vicolo cieco in cui la produzione scientifica si sta infilando: la competitività esasperata tra gruppi di ricerca e tra le stesse riviste scientifiche ha certamente influito positivamente nello stimolare la produzione, generando però al tempo stesso una serie di problemi come le falsificazioni dei dati e la non fabbricabilità di un dato negativo. Se l’input principale di un ricercatore è solo quello di pubblicare, in seguito all’incapacità di produrre dei dati che rispecchino le ipotesi di lavoro e che siano innovativi, il nostro malcapitato può spesso avere la tentazione di modificare i propri dati perché risultino scientificamente significativi. Inoltre, facendo una rapida ricerca in una banca dati (come Pubmed per le pubblicazioni mediche, per esempio) salta subito agli occhi che gli unici dati pubblicati sono quelli positivi, quelli che effettivamente hanno portato un avanzamento del campo in cui si lavora.
Sembrerebbe scontato, ma molto spesso i dati che hanno una valenza maggiore sono quelli negativi, le cosiddette strade senza uscita. Il motivo di questa mia affermazione (che vi assicuro, non è una giustificazione in quanto non ha nulla a che vedere con la mia attuale produzione scientifica) è da ricercarsi nella quantità di tempo e denaro persi dai vari gruppi di ricerca nel costante tentativo di produrre qualcosa di innovativo. Senza pubblicare i risultati negativi prodotti da un gruppo di ricerca, questi ultimi non potranno servire da monito a un altro gruppo che lavora nello stesso campo, che commetterà gli stessi errori e contribuirà così alla creazione di una spirale di sprechi che ogni giorno miete vittime, soprattutto tra noi “poveri” ricercatori.
Certo, non esiste alcun divieto a scrivere di un risultato negativo e in teoria tutti i gruppi di ricerca potrebbero dedicare uno o due paragrafi agli esperimenti senza esito. Questo ovviamente in teoria. Perché a fare la voce grossa nelle nella decisione di pubblicare o meno un articolo sono le riviste scientifiche, che scelgono autonomamente gli articoli a seconda dei benefici e della visibilità che questi possono portare alla rivista stessa. Per cui, ovviamente, saranno sempre preferiti gli articoli che mostrano i progressi della ricerca a discapito di quelli che invece dovrebbero mettere in allarme riguardo alle strade da non percorrere.
Su questi dati si dovrebbe riflettere anche perché sollevano problemi che sarebbe facile risolvere: non mi sembra un’idea titanica e irrealizzabile la creazione di una banca dati che raccolga solo i risultati negativi così come è auspicabile un maggior criterio nell’analizzare i papers ed un minor potere degli editors delle riviste. Comunque queste sono solo sproloqui generati dal ben noto ottovolante emotivo. Gira, gira sempre e non si ferma mai. I love science.